martedì 20 gennaio 2009

Lingue e dialetti in Italia, con il Prof. Franco Brevini

A differenza delle sorelle europee, la lingua italiana non si è naturalmente evoluta nel tempo a partire dal Volgare, ma s’ è quasi materializzata dal nulla in epoca moderna per permettere la diffusione di un’identità nazionale che superasse i confini ed i particolarismi regionali e locali, oltreché per ampliare i mercati disponibili al sistema economico (si pensi ad esempio alle possibilità di vendita di un libro scritto in dialetto veneziano e a quelle di una sua traduzione in Italiano).

Isolati e quindi impermeabili agli influssi reciproci, avevano dominato infatti, fino alla fine del ‘700, i dialetti e cioè fino a quando l’Accademia della Crusca formalizzò e quindi impose ai letterati una nuova lingua elaborata sulla base di quella usata dal Petrarca e da Dante (non si scelse infatti semplicemente di adottare il dialetto fiorentino come molti erroneamente ritengono!). Ciò significò soprattutto stilare un vocabolario ‘autorizzato’ al fine della scrittura letteraria. Tale elenco di parole, però, non comprendeva termini adatti a descrivere la quotidianità (cosa ovvia, visto che i testi dello Stil Novo scelti allo scopo non erano certo descrittivi di fatti e persone in contesti reali) e dunque la nuova lingua acquistò subito un che di pomposo e forzatamente aulico (l’inno di Mameli ci insegna qualcosa, ma anche i libretti d’Opera…). Per i primi scrittori dell’epoca non fu certo vita facile: basti ricordare che il Manzoni scrisse in due anni la prima versione dei Promessi Sposi e ce ne mise altri 16 per ‘correggere le bozze’ (‘sciacquar i panni in Arno’).

Per tutti gli autori che scelsero di scrivere in Italiano, questa evoluzione significò rinunciare all’autenticità di un linguaggio schietto, ricco e punteggiato da coloriture regionali. Le opere persero così immediatezza ed efficacia e rileggendo oggi testi dialettali poi tradotti dallo stesso autore, ci si trova a sorridere dei protagonisti che spesso ne escono ridicolizzati (come non sorridere di fronte a Violetta, donna di facili costumi, che parla come una nobildonna?). L’Italiano divenne dunque inevitabilmente la lingua per descrivere un mondo idealizzato, abitato da dame e cavalieri mossi da nobili sentimenti, sullo sfondo di una realtà solo accennata.
La letteratura che rimase dialettale (nelle antologie scolastiche ancora designata come ‘minore’) conservò invece il suo legame con il popolo, gli esclusi, la disperazione, i luoghi della terra e del lavoro, i sentimenti vissuti, l’erotismo, tutti temi che certo non avrebbero potuto essere trattati con eguale profondità dalla letteratura ‘alta’.
Il Prof. Brevini ci ha dunque accompagnato in un’emozionante esplorazione della poesia dialettale dal ‘600’ all’età contemporanea, viaggiando in tutto lo stivale grazie alla lettura – ma sarebbe meglio definirla performance attoriale – di brani scelti tra le opere degli autori più rappresentativi. Alcune pagine del Belli (autore Romano) e del Porta (milanese) ci hanno restituito la stessa idea dell’Italia popolana rassegnata e vinta delle canzoni di De André; non a caso, nella letteratura ‘popolare’, l’eroina è spesso una prostituta come le tante che popolano le canzoni dell’autore genovese - e forse il più grande pregio di De Andrè fu proprio quello di aver riportato alla luce l’autenticità della cultura poetica popolare in un linguaggio comprensibile a tutti: un linguaggio che gli consentì di parlare di amore e guerra (quella vera e non dei cavalieri senza macchia e paura) con la stessa forza che usarono i nostri poeti dialettali per dar voce agli ultimi e riscattare i vinti – altre pagine invece ci hanno emozionato e divertito, come quelle di Trilussa e persino Totò, con la sua ormai famosissima ‘A livella’.

In breve, l’Italiano odierno è un idioma assai giovane che, mentre muove i suoi primi passi, già si contamina dei tanti altri idiomi che percorrono la penisola grazie alla globalizzazione. Pensare di attuare politiche di salvaguardia dei dialetti è utopico e anacronistico, ma esplorare la nostra cultura popolare rappresenta un’opportunità imperdibile per comprendere meglio chi eravamo e come vivevano le generazioni che ci hanno preceduto.

La serata si è conclusa con un vivace dibattito ed alcune curiose rivelazioni…ma per saperne di più potete richiederci il DVD della serata!

MB

2 commenti:

Anonimo ha detto...

la serata è stata molto interessante, il prof ha saputo far compiere un giro per l'Italia in brevi cenni esaurienti. Voglio però discutere un tema che mi sta a cuore: una delle tesi più importanti è che la letteratura colta era falsa, quella popolare vera. Io ho sentito esempi di narrazione di situazioni grevi, volgari, depresse, ... questo è la letteratura popolare? Il modello odierno di tv spazzatura e giornali allo sfascio, governati da Al Tappone e consimili è popolare perchè parla di situazioni comuni, depresse e volgari? Il portare le idee al livello dello zerbino è illustrare qualità degne? Io credo che, usando gli esempi letti nella serata, va riconosciuto a questa letteratura l'aver messo sotto i riflettori una certa condizione popolare, ma se questo è stato lo sforzo ed il risultato, la letteratura "gentile" ha avuto il grande pregio di aiutare l'elevazione delle idee del lettore. Certo, lettore agiato; ma per cambiare bisogna avere degli ideali, non solo lamentarsi...e per cambiare bisogna lottare, non solo protestare... questo valeva ieri come vale ancora oggi; facciamo una serata sulla cultura odierna, in rapporto a quella dell'epoca della nascita dell'italiano? Tanta Luce! Bruno

Marta B. ha detto...

Ciao Bruno e benvenuto nel Blog!

Credo che il punto focale della conferenza abbia riguardato la genesi della lingua italiana, più che la valutazione della cultura popolare in quanto tale. Gli spunti offerti dalle letture sono infatti stati scelti allo scopo di mettere a nudo squarci di realtà, la cui crudezza e immediatezza potevano essere resi solo nella lingua dialettale, grazie alla ricchezza di espressioni e vocaboli adatti all'uopo che la caratterizzava.

Per quanto riguarda invece il giudizio sul valore culturale della posia 'minore' e dei suoi toni cupi e 'grevi', non mi soffermo su questo aspetto, ritenendo che ciò costituisca senz'altro un tema che meriterebbe ben altri spazi di approfondimento.
Accolgo invece volentieri il tuo invito a programmare una conferenza sulla 'cultura moderna' all'interno del prossimo calendario 2010.

Grazie e saluti,
marta