di Franco Brevini
La modernità sta distruggendo la natura. L’allarme rimbalza ogni giorno dalle agende dei governi alle pagine dei giornali. Come sappiamo, quel processo che oggi sembra toccare la sua drammatica acme, è iniziato con l’avvio della stessa modernità industriale, quando furono in molti a ritenere che le opere dell’uomo avevano cessato di accrescere la bellezza della natura e che la nuova età che si stava aprendo sarebbe stata all’insegna dell’inestetico. Fra le estreme apparizioni dell’ancien régime vanno annoverati i nobili scenari fissati da pittori come Thomas Gainsborough: il gentiluomo di campagna in abiti da caccia, sua moglie in crinolina all’ombra di una quercia e dietro la suggestiva arcadia della sua proprietà rurale. Ma di colpo, già a partire dalla fine del Settecento, l’impoetica skyline degli opifici, le torri delle miniere e le scorie di carbone cominciano a deturpare irreversibilmente quei pittoreschi paesaggi.
Il nostro villaggio era uno dei più graziosi che si potessero vedere. Voglio dire che era grazioso perché era così verde e fresco e pulito… Allora il vento portava con sé un profumo che doveva essere di fiori selvatici e delle erbe dolci che crescevano sulla montagna.
È un passo di 'Com’era verde la mia vallata'
di Richard Llewellyn, da cui John Ford trarrà nel 1941 il suo celebre film. È la storia di un villaggio minerario gallese della fine dell’Ottocento, ma l’atmosfera di irreparabile distruzione di un eden originario era quella stessa che aveva caratterizzato tanta parte della prima civiltà industriale e che è testimoniata fra gli altri dal poeta William Wordsworth e dallo storico George Macaulay Trevelyan.
Eppure limitarsi ad affermare che la modernità distrugge la natura, significa dire solo metà della verità. L’altra metà è costituita invece dai formidabili anticorpi espressi dalla cultura occidentale. Dall’esilio del suo irrevocabile artificio la modernità ha infatti rilanciato una nuova idea di natura, che poco ha a che fare con quella tramandata dalla classicità. È un’idea che travolge tutti i precedenti paradigmi connessi alla percezione della natura e che stabilisce un’irreparabile scissione tra mondo naturale e mondo storico.
Questa profonda trasformazione è testimoniata da una serie di indicatori, fra cui la legittimazione di due realtà naturali, che, a ben guardare, appaiono riconducibili alla medesima categoria estetica: il sublime. Dopo che per secoli letteralmente non erano stati visti, perché non rientravano in alcuno dei canoni percettivi correnti, alla fine del Settecento due nuovi fenomeni naturali fanno il loro ingresso nella cultura occidentale: le grandi montagne e le desolate distese dei ghiacci polari. La loro apparizione sulla ribalta della cultura europea, accanto al deserto, alla terrifica potenza del vulcano, al mare in tempesta, se per un verso rientra nel processo di evoluzione dei canoni estetici, per un altro verso costituisce una delle tante reazioni al degrado industriale. Quanto più l’ordinato contorno naturale dell’antica civitas appare minacciato dall’avanzare del moderno degrado, tanto più si vagheggia un mondo di incorrotta purezza: estremo, remoto, intangibile. I due fenomeni sono a tal punto connessi che, della modernità, lo scalatore o l’esploratore tra i ghiacci non rappresentano figure meno emblematiche del Chaplin di Tempi moderni intrappolato negli ingranaggi della catena di montaggio. Ne costituiscono semplicemente l’altra faccia.
Le conferme di un nesso in apparenza tanto imprevedibile tra la scoperta della natura selvaggia e incontaminata e la distruzione dell’ambiente sono numerose, ma vorrei cominciare con offrirne una a dir poco clamorosa. Non mi pare che sia stato finora notato un fatto piuttosto elementare e proprio per questo sconcertante: perché la scoperta della montagna e la nascita dell’alpinismo avvengono in Inghilterra, cioè in un paese privo di montagne veramente degne di questo nome e perché avviene comunque lontano dalle Alpi? Si compiono in Inghilterra sia perché è in quell’area che il culto della natura ha radici secolari, dal gusto per le dimore di campagna, per i parchi e per i giardini all’amore per gli animali da compagnia, dalla pratica del bird-watching alla venerazione per cani e cavalli. Ma soprattutto perché è in Inghilterra che le conseguenze della rivoluzione industriale si mostrano più precocemente allarmanti.
Un analogo meccanismo di rivalsa si ritrova nell’amore per la natura del mondo americano: si pensi solo al fervore per la wilderness e per i grandi spazi incontaminati di Henry David Thoreau. Vi possiamo riconoscere il tipico mito riparatore di una civiltà responsabile di avere distrutto i deserti e le praterie. Che i primi parchi nazionali siano nati laggiù la dice lunga su questo complesso di colpa.
Per secoli le montagne e i ghiacci polari sono stati sentiti come l’alter orbis, emblemi di un’alterità minacciosa e di un’estraneità irrevocabile. La montagna è stata di volta in volta axis mundi, luogo magico di congiunzione di terreno e di ultraterreno, come accade nel monte del Purgatorio di Dante o nel Monte Analogo di Daumal. Ha costituito la sede o l’altare della divinità, come l’Olimpo o il Sinai, ovvero il luogo della visione e della conoscenza, come nella Trasfigurazione sul Tabor. Le montagne si ergono verticalmente, dal centro della Terra al Cielo, e il loro asse è simbolo dell'asse cosmico, che nello sciamanesimo rappresenta lo Spirito.
Rudolf Otto, il grande studioso tedesco di religioni, scrisse che all’origine del sacro sta l’«assolutamente diverso». È in tale radicale diversità, senza dimenticare l’idea di potenza che vi associava invece Mircea Eliade, che la montagna si candida precocemente a sede del sacro.
Ma non possiamo dimenticare la dimensione ctonia della montagna come dimora dei defunti o addirittura come luogo infernale, che ritroviamo nelle mitologie dei monts maudits sopravvissute fino a due secoli fa nel cuore dell’Europa. Ricordiamo che «montagne maledette» era il nome generico dell’intera catena del Monte Bianco prima della nascita dell’alpinismo.
Nei luoghi di produzione della cultura europea, fortemente centrata sul Mediterraneo, anche gli spazi del Nord fino dall’antichità sono stati invariabilmente sentiti come emblemi dell’altrove. E così l’immaginario settentrionale si è sviluppato in contrapposizione al suo opposto, il Sud dell’ecumene mediterranea, alimentando gli eterostereotipi più negativi: il Nord come luogo remoto, gelido, ostile, tempestoso, melanconico, repulsivo, perennemente invernale, spettrale, crepuscolare o notturno, solitario e inospitale. Perfino Dante lo recupererà nell’«eterna ghiaccia» del suo inferno: la lontananza da Dio si materializza nella vetrosa materia aquilonare.
La negatività era declinata anche in termini teratologici. Basta dare un’occhiata alla Carta Marina che Olao Magno pubblicò a Venezia nel 1539. Qui realtà e mito convivono e così, se la rappresentazione del territorio risulta per la prima volta abbastanza veritiera, i mari continuano a essere infestati da mostruose creature, pesci dalle forme bizzarre, taluni con baffi e chele come le aragoste, altri con un corno che emerge alla superficie (sono i narvali), altri ancora con il corpo rivestito di squamose corazze. Vi troviamo gigantesche, zampillanti balene che ingoiano le navi o serpenti di mare, i famosi kraken, che le stritolano. E ancora: insidiosi tronchi e lastroni di ghiaccio alla deriva su cui flottano gli ursi albi; navi che affondano, resti di naufragi e il gorgo del Maelström, chiamato horrenda caribdi. A depositare un alone favoloso sulle contrade aquilonari contribuiva anche la presenza di fenomeni esorbitanti come gli iceberg, le aurore boreali, il magnetismo che fa impazzire gli aghi delle bussole, i leviatani e gli unicorni.
Dalle montagne come dai ghiacci per secoli gli uomini si sono dunque mantenuti a prudente distanza e la temeraria oltranza di poche isolate sfide si è giustificata solo con la meraviglia dei tesori che quei luoghi custodivano. Nel caso delle montagne, i cristalli o le ambite prede di caccia, dai camosci, ai cervi, agli stambecchi, mentre nel caso del Nord, l’ambra, le pellicce, le balene, l’avorio.
Fino alla metà del Settecento le «Alpi gelide e canute» del celebre sonetto di Galeazzo di Tarsia non avevano rappresentato che ingombranti ostacoli alla civiltà e alle comunicazioni. Nel migliore dei casi i poeti le avevano salutate come provvido «schermo / […] fra noi e la tedesca rabbia». A dire il vero senza molto successo, se secoli di invasioni e scorrerie avevano poi provveduto a riconvertirle nelle «mal vietate Alpi».
Come i ghiacci boreali, le montagne appartenevano alla natura ferina, che costituisce il grado più primitivo della creazione e il luogo dell’errore. Di nuovo ne sa qualcosa Dante, che si smarrisce nella «selva oscura». Silva è la traduzione latina del termine platonico chora e di quello aristotelico hyle. Entrambi rimandano all’idea della materia oscura e primordiale, di ciò che è intricato e negativo. Per secoli la selva è il luogo canonico dell’avventura e della perdita, come dimostrano i poemi cavallereschi o le fiabe, il paladino Orlando e Cappuccetto Rosso. E il mare è la frontiera della scoperta e dell’incontro straordinario, della ricerca della terra nondum cognita e dell’affiorare dell’abisso.
La positività era invece associata al paesaggio coltivato, ai campi ondeggianti di messi, alla collina con la vite e l’ulivo, insomma al luogo esiodeo consacrato dalle opere e dai giorni della fatica umana: gli «effetti del buon governo», come vuole un celebre affresco di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Fino al Settecento solo l’aratro sapeva redimere il paesaggio naturale. La natura doveva essere sottratta alla casualità meccanica che la governa, redimendola dall’istintualità e dalla ferocia: un modello della stessa civiltà. L’emblema è Venerdì, il selvaggio del romanzo di Defoe, Robinson Crusoe, uscito nel 1719, che viene strappato alla barbarie del cannibalismo e indirizzato alla vera religione.
«Beauty is not a real property of things»
Affinché le montagne entrino nel campo visuale della cultura europea, aprendo la strada all'esplorazione di quel nuovo spazio che potremmo definire il «continente verticale», sarà necessario che si produca una profonda modificazione dei paradigmi, che cade intorno alla metà del XVIII secolo e che nel campo dell'estetica si riassume nel passaggio dal pittoresco al sublime.
L’interesse verso il mondo iperboreo partecipa di quello stesso mutato clima, anche se i viaggi al Nord avevano complessivamente conosciuto una maggiore frequenza delle incursioni in alta montagna di cacciatori e cristalliers. E tuttavia anche nel caso dei viaggi boreali occorre distinguere. Fino al XIX secolo il regno dei ghiacci era stato percorso non quale meta in sé, ma, da un lato per le cogliere le sue misteriose ricchezze, dall’altro alla ricerca di rotte alternative verso i mercati delle spezie orientali capaci di aggirare il monopolio arabo.
La ricerca dei Passaggi a nord-est e a nord-ovest verso le «drogherie» del Far East, obiettivo, come si ricorderà, anche del viaggio di Colombo, segnò in modo caratteristico l’età moderna, dando vita alla più pericolosa e alla più vana fra le imprese della storia delle esplorazioni. Percorso solo nel 1878-79 il primo e tra il 1903 e il 1905 il secondo, i due passaggi si riveleranno infatti troppo ingombri di ghiacci, troppo pericolosi e troppo laboriosi per costituire effettive rotte per la navigazione commerciale. Entrambi sono stati utilizzati un po’ più sistematicamente solo nel Novecento grazie a ragioni sia climatiche, sia tecnologiche: lo scioglimento dei ghiacci artici da una parte e la disponibilità di potenti rompighiaccio nucleari dall’altra. In tutti i casi comunque i banchi galleggianti della banchisa entro cui si addentravano i navigatori non offrivano in sé alcuna attrattiva. Erano sentiti come penosi pedaggi che l’ardimento umano doveva pagare per esplorare rotte commerciali di elevato interesse strategico.
Questo quadro cambia con la transizione dal pittoresco al sublime, che travolge definitivamente gli ordinati canoni dell’estetica classicista. Spostando l’attenzione dall’oggetto naturale al soggetto che lo percepisce, tale transizione segna una svolta epocale e inaugura l’idea di natura nella quale siamo tuttora immersi. Se, parafrasando Hume, la bellezza non è una proprietà delle cose in sé, se ciò che conta è piuttosto l’emozione del soggetto, ecco che il regno dell’estetico può dischiudersi ad apparizioni della natura fino ad allora impensabili proprio perché smisurate e grandiose, selvagge, esorbitanti, terrifiche e mostruose. Ben oltre ciò che è ordinato e simmetrico, tutto può allora diventare esteticamente significativo a patto di suscitare un’emozione. Dalla moderata irregolarità del pittoresco il sublime conduce nell’irregolarità più estrema.
Oltre le ragioni estetiche, ad assicurare una valorizzazione alla natura selvaggia sono state le stesse ragioni che spingevano un tempo a condannarla. Proprio il selvatico e il barbarico, che terrorizzavano l’uomo barricato entro le mura delle città, confortano oggi la folla solitaria delle megalopoli. Nell’Ottocento si assiste al decollo di un diffuso sentimentalismo a base agreste, che, fuggendo le viziose Babilonie erette dal capitalismo industriale, celebra i semplici valori della vita in campagna e più tardi dell’arcadia alpina. Insomma Heidi o Tartarino non rappresentano che l’altra faccia di Gregor Samsa che agita le sue chele nel chiuso di una stanza. Ma già alla fine del Settecento, dal Rousseau della Nouvelle Heloïse ai Voyages di De Saussure, le Alpi erano apparse, non più come luogo teratologico e infernale, ma come un Eden miracolosamente sopravvissuto nel cuore dell’Europa. Ecco una descrizione di Chamonix firmata dal fautore della prima ascensione al Monte Bianco:
L’aria pura e fresca che si respira, così diversa dall’aria soffocante delle valli di Sallanche e di Servoz, le belle colture della valle, le graziose borgate che si incontrano a ogni passo, danno nelle giornate di bel tempo l’idea di un mondo nuovo, di una specie di Paradiso terrestre, rinchiuso da una Divinità benefica nella cerchia delle montagne.
Per una curiosa coincidenza cronologica il romanzo di Rousseau, che si fece portavoce in tutta Europa della moda dell’alta montagna, venne messo in vendita a Parigi nel 1761, lo stesso anno in cui Saussure compì uno dei suoi primi viaggi a Chamonix. In quell’occasione il naturalista ginevrino fece affiggere su tutte le parrocchie della valle un bando in cui prometteva un compenso a chi avesse scoperto un itinerario per raggiungere la cima più alta del massiccio. La corsa al Monte Bianco era cominciata.
Nella Critica del Giudizio, pubblicata nel 1790, quattro anni dopo la prima ascensione alla vetta più alta d’Europa, Kant denuncia i limiti della concezione empirista del delightful horror di Burke, che nel 1757 nella sua fortunatissima Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful aveva rilevato l’insufficienza delle tradizionali categorie estetiche rilanciando il sublime. E per farlo cita proprio le montagne e i ghiacciai, che stavano entusiasmando l’Europa. Per il filosofo tedesco la sublimità non sta nell’oggetto, ma nel soggetto che lo contempla.
Chi vorrebbe chiamar sublimi masse montuose informi, poste l'una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso, e altre cose di questo genere?
La reazione al degrado paesaggistico delle aree più economicamente avanzate dell’Europa si incontra dunque con la svolta culturale che sdogana la natura selvaggia. Nel giro di pochi decenni le Alpi diventano un nuovo, affascinante terreno di gioco: «the Playground of Europe» le definirà Leslie Stephen, critico letterario, docente a Cambridge e alpinista di punta dell’età vittoriana, oltre che odiosamato padre di Virginia Woolf. Il 1865 è l’anno della conquista del Cervino e di Alice nel paese delle meraviglie: per gli alpinisti, che vedevano dischiudersi un nuovo meraviglioso terreno d’avventura, una coincidenza tutt’altro che casuale.
Per le vallate alpine si inaugura la più grandiosa trasformazione antropologica della loro storia. Non senza una contraddizione quanto mai tipica della società moderna, quella ricerca di solitudine e di ambienti intatti innescherà un processo che metterà seriamente a repentaglio l’integrità di quegli stessi ambienti. Tanto che, non solo in montagna, si renderà necessario correre ai ripari istituendo le aree protette. C’è una singolare coincidenza tra il modo in cui Ruskin chiamava le montagne — «le cattedrali della terra», di cui gli alpinisti sarebbero i profanatori — e la definizione che nel 1896 Charles Eliot darà delle riserve paesaggistiche: «le cattedrali del mondo moderno».
L’apprezzamento delle «dentate, scintillanti vette» si impone di conserva con il successo dei nuovi scenari naturali che approdano alla cultura europea. È quella che Paul Hazard definì «l’invasion des littératures du Nord». Dopo il locus amoenus della valle di Tempe, dopo il pittoresco del Mediterraneo classico, è la volta dei desolati paesaggi dei Canti di Ossian, delle selve dei bardi primitivi, delle Highlands delle ballate di Robert Burns. Basta pensare allo sgomento che traspare dai quadri di Caspar David Friedrich: i suoi alberi contorti dal gelo invernale, le marine livide, le brume, quel nuovo senso di solitudine.
Il pittore tedesco dipinse anche un vero e proprio quadro polare conservato ad Amburgo, Das Eismeer, intitolato anche Il naufragio della speranza. L’intento era di rappresentare il nuovo clima di gelo politico, in particolare il tradimento delle speranze dei popoli, che la Restaurazione aveva stretto nelle ghiacciate morse dell’assolutismo. Ma sappiamo che il quadro fu ispirato dalle spedizioni polari, in particolare dai diario di bordo scritto nel 1819-20 dal famoso esploratore William Parry durante una delle sue missioni alla ricerca del Passaggio di nord-ovest.
Nella cultura italiana i viaggi al Nord sono registrati fino dal Trecento con i fratelli Zeno, come ho documentato nel mio volume La sfinge dei ghiacci. Ma fino al XVIII secolo a imporsi fu una curiosità da Wunderkammer, perfettamente esemplificata da Francesco Negri, che tra il 1663 e il 1666 raggiunse in inverno Capo Nord. Nel suo Viaggio settentrionale prevale un gusto del meraviglioso che prevarica spesso il nuovo spirito scientifico cresciuto alla scuola di Galileo che Negri professa.
La prima moderna rappresentazione del mondo nordico debitrice verso l’estetica del sublime ci è fornita da Vittorio Alfieri nelle pagine della Vita dedicate alla Svezia e alla traversata in Finlandia. I paesaggi grandiosi e senza vita, le lande gelide e desertiche costituiscono il teatro perfetto di un io titanico e aristocratico, che, nella sua pulsione anti-sociale, appare mosso da un impulso che non trova pace. Le immagini del paesaggio che Alfieri ci fornisce vanno tutte nel senso del nuovo gusto: dopo il «ferocissimo inverno», la «greggia maestosa natura», le cose «ruvidamente scolpite», lo scrittore descrive le «cupe selvone» e i «lagoni crostati», su cui si lancia «con furore» nelle sue corse in slitta. Più avanti parlerà di «densissima crostona», di «tavoloni galleggianti», ecc. Si noti la studiata ricerca di una lingua spigolosa, estranea al decoro della tradizione italiana.
Nella descrizione della traversata del Golfo di Botnia ancora in parte gelato si delinea un’altra componente rispetto a quella del paesaggio sublime: l’agonismo. Alfieri che, impugnando l’ascia, combatte con i lastroni di ghiaccio alla deriva, impersona una nuova figura eroica in lotta con gli elementi, che avrà largo corso nel secolo successivo. Dal nostro punto di vista pensiamo solo all’emblematicità dell’alpinista e dell’esploratore polare.
Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora.
Negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento prendono la via del Nord due altri viaggiatori italiani: Giuseppe Acerbi e Carlo Vidua. Sono entrambi cresciuti nell’ossequio alla cultura classicista, di cui Acerbi si sarebbe fatto anche banditore dirigendo la «Biblioteca Italiana». Ma in entrambi sia l’interesse verso le inedite mete boreali, estranee alla tradizione del Grand Tour, sia l’attenzione manifestata verso i paesaggi nordici dimostrano quanto la nuova sensibilità estetica andasse diffondendosi. Ecco cosa scrive Acerbi valicando le Alpi Scandinave per discendere verso le coste dell’Atlantico:
Valicammo le più alte cime di queste alpi e passeggiammo più volte il capo nelle nubi e i piè nella neve. Passammo fra le alte una piciol cascata fra roccie ove la neve ancor alta aveva pel calor formate delle grotte e de volti profondi ed assai profondi. Passeggiammo in tutte queste stanze e fu per noi la più meravigliosa sorpresa vederci trasportato in un palazzo di ghiaccio e di neve ornato di stalactidi grondanti in mille forme ed inesprimibili dall’arte e dal penello.
Perché le prue delle navi siano volte decisamente verso i 90° di latitudine nord occorrerà che il nuovo interesse verso gli spazi selvaggi si incontri con lo spirito scientifico promosso dalla cultura del positivismo. Ma nell’età aurea dei viaggi polari, che prende il via a partire dalla fine del XIX secolo, contemporaneamente ai primi tentativi sugli ottomila himalayani, entra in gioco anche un’altra componente. Le immagini delle regioni artiche, come quella dei giganti asiatici, si plasmano sui valori della conquista, della scoperta, della domesticazione della natura, che sono promosse dalle classi dirigenti dell’età coloniale, in un intreccio di dominio di sé e dominio della natura ben attestati, ad esempio, nell’Inghilterra vittoriana.
Non è davvero un caso che la più alta montagna della terra, quella che era chiamata dai tibetani Chomolungma («L’altissima dea») e dai nepalesi Sagarmatha («Dea madre del mondo»), sia stata intitolata a Sir Gorge Everest, il cartografo inglese per molti anni ai vertici del Survey of India, il servizio topografico britannico che rappresentò uno dei pilastri dell’impero di Sua Maestà. Il tetto del mondo parlava inglese e celebrava l’opera benemerita di un solerte geografo dell’impero, che si era speso nei domini asiatici, sottraendoli alla barbarie dell’indeterminato e consegnandoli alla civiltà nel codice dei dominatori.
A sventolare sull’Everest non avrebbe potuto essere che l’Union Jack. Il legame fra la più grande potenza e la vetta più alta appariva quasi fatale. Nessun’altra cima himalayana fu oggetto di un analogo accanimento da parte di una nazione europea. Il «Times» diede per primo la notizia della vittoria il mattino del 2 giugno 1953, lo stesso giorno dell’incoronazione della regina Elisabetta. Alla nazione reduce dall’austerity del dopoguerra i due eventi sembrarono forieri di una nuova età di ottimismo.
«Lottare, cercare, trovare e non arrendersi». Il verso dell’Ulisse di Tennyson sulla croce di legno piantata a Capo Evans, in Antartide, in memoria dei cinque componenti della sfortunata spedizione britannica guidata da Scott, testimonia l’analogo spirito con cui vennero condotte le esplorazioni polari. Scott e Shackleton furono sentiti come gli emblemi della tenacia e del coraggio del popolo inglese gettato in terre ignote ai quattro angoli del globo. Per una singolare coincidenza tre mesi dopo il fallimento di Scott, con il Titanic affondava nelle acque dell’Oceano Atlantico un altro orgoglioso mito della potenza inglese.
Anche l’Italia partecipò in prima persona alla corsa verso i poli e nel 1899-1900 le pattuglie del comandante Cagni segnarono un record di penetrazione verso il Polo Nord, superando la latitudine precedentemente stabilita da Nansen. Guidata dal Duca degli Abruzzi, la spedizione della Stella Polare non era meno carica di valori ideologici. Nella giovane nazione lacerata dalla crisi economica e dai conflitti sociali, si proponeva di promuovere il senso di appartenenza e l’orgoglio patrio, rafforzando l’immagine della monarchia minata da una poco accorta politica estera. Ecco cosa scrive il duca stesso:
Come gli uomini, che nelle lotte quotidiane, col superare le difficoltà, si sentono più forti per affrontarne delle maggiori, così è delle Nazioni, che dai successi riportati dai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate e spinte a perseverare nei loro sforzi per la propria grandezza e prosperità.
Ancora ai primi del Novecento Artide e Antartide restavano avvolti nel mistero. In tal senso si può dire che i poli rappresentino una volta di più dei tipici miti della modernità. Non solo perché vennero raggiunti solo nel XX secolo, l’uno nel 1912 e l’altro nel 1926, quando ogni altro luogo della terra era già stato calcato dall’uomo. Ma anche perché, soprattutto il Polo Nord, poté essere conquistato grazie all’impiego dei moderni mezzi, che permettevano di proseguire oltre le banchise ghiacciate dove per secoli si erano arrestate le navi a vela: i dirigibili, gli aerei, i rompighiaccio. L’esempio più clamoroso è offerto dalle spedizioni polari di Umberto Nobile con i suoi dirigibili, includendo anche la grande operazione di salvataggio legata all’epopea della Tenda Rossa, la più vasta fino ad allora messa in atto, con la partecipazione di 6 nazioni, che misero in campo 22 aerei, 18 navi e oltre 1500 uomini.
La scoperta della natura selvaggia, che originariamente aveva rappresentato una reazione al degrado ambientale indotto dalla modernità, ha dunque potuto essere condotta a termine grazie all’evoluzione tecnologica, che della modernità è uno dei risultati più significativi. Le ultime frontiere del mondo selvaggio, i due poli e i quattordici ottomila himalayani, dopo secoli, tra il 1912 e il 1964, sarebbero infatti caduti uno dopo l’altro nel giro di un cinquantennio.
Si concludeva un ciclo, ma già la passione per la natura incontaminata era diventata allarme per una distruzione che si stava facendo ogni giorno più indiscriminata. Forse, come diceva Schiller, rispetto agli antichi che sentivano naturalmente, noi moderni sentiamo la natura perché avvertiamo la minaccia che incombe su di essa. E forse la venerazione che ci è ispirata dalla sua vista allude anche a qualcosa di prezioso, al nostro sentirci parti di quella stessa natura, di cui la modernità ci ha privato. Ce ne rendiamo conto ogni volta che una montagna, alle porte di casa o in capo al mondo, ci aiuta a conquistare almeno momentaneamente una condizione di lontananza.